Calabresi al fronte.

La luce vince sempre sul buio

Created with Sketch.

Calabresi al fronte.

LA VITA DEI SOLDATI ITALIANI AL FRONTE NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

RELAZIONE DEL GENERALE E.I. FRANCESCO DEODATO TENUTA A SETTEMBRE 2014 PER L’ARCHIVIO DI STATO DI VIBO VALENTIA IN OCCASIONE DELLA RICORRENZA DEL PRIMO CENTENARIO DELL’EVENTO

Dante Alighieri nel terzo canto dell’Inferno parla delle anime dei dannati che imbarca Caronte e scrive:

‹‹Come d’autunno, si levan le foglie / l’una appresso dell’altra, infin che il ramo / rende alla terra tutte le sue spoglie››.

Il divin Poeta, in questa metafora tra la vita recisa e le foglie morte, fa riferimento ad un altro poeta, l’amato Virgilio che, nella traduzione di Annibal Caro, in un passo del suo sesto libro de l’Eneide dice:

‹‹Non tante foglie ne l’estremo autunno / per le selve cader, non tanti augelli / si veggon d’alto mar calarsi a terra, / quanti eran questi››.

Oltre 600 anni dopo la stesura della Divina Commedia, un altro grande personaggio, Giuseppe Ungaretti, il fondatore della corrente poetica-letteraria del novecento che va sotto il nome di Ermetismo, legato alla Calabria per un avvenimento a cui accenneremo in seguito, per definire quanto poco valesse la vita dei soldati al fronte, quello della prima Guerra Mondiale, così scriveva:

‹‹Si sta come d’autunno / sugli alberi le foglie››.

Io credo che basterebbe da sola, questa breve, brevissima poesia, a farci riflettere su quella che fu la vita dei nostri soldati in quei tristi anni che vanno dal 24 maggio del 1915 al 4 novembre del 1918. Anni che ricordiamo come “la prima guerra mondiale”. La prima guerra dell’era moderna a carattere globale e che fece capire più di ogni altra al mondo intero l’atrocità di quell’atto.

 Militarmente la guerra viene definita ‹‹la continuazione con altri mezzi di quello che la diplomazia non è riuscita a risolvere››.

Altri preferiscono definirla come ‹‹un evento sociale e politico generalmente di vaste dimensioni che consiste nel confronto armato tra due o più soggetti collettivi significativi››.

Resta però il fatto che, comunque la si voglia definire, la guerra è solo un evento catastrofico destinato a segnare la storia di un popolo con il pagamento di un tributo di sangue sempre e comunque elevatissimo pur anche quando le sue vittime possono contarsi sulle dita di una mano.

Capisco che può apparire strano sentire parlare della guerra in questi termini da un militare.

Il militare, appunto, colui che nell’immaginifico collettivo è il mestierante della guerra, colui che vive di conflitti e che fa del suo fucile la sua penna, la sua vanga, il suo indispensabile attrezzo da lavoro.

Eppure, credetemi, proprio il militare, colui che ogni giorno si rapporta con l’alea di un conflitto, è il solo che, per questo, conosce quanto grande sia il valore della parola “pace”.

Proprio il militare di professione, secondo me, è la persona più indicata a rappresentare le atrocità di una guerra e la magnificenza della breve ma altamente significativa parola “pace”.

Io, oggi sono qui per parlarvi della vita dei soldati al fronte ed in modo particolare di quelli calabresi.

Sono qui per parlarvi della vita dei militari, i nostri, quei ragazzi che senza riserve offrirono il loro petto per l’unità e la libertà di una nazione, la nostra, l’Italia, quel capriccio di Dio, quella striscia di terra che si allunga dalle Alpi a Lilibeo e che ognuno di noi dovrebbe amare come si ama la propria madre!

Vi parlerò, particolarmente, della vita dei nostri militari nella Prima Guerra Mondiale o, come preferisco definirla, “la quarta guerra per l’indipendenza”, quella del 1915-18, avendo raccolto la testimonianza diretta di chi, come calabrese, a quella guerra partecipò e, lo faccio con grande commozione, perché mi riporta ad un periodo lontano della mia vita.

Mi riporta al periodo della mia prima infanzia, quando, bambino di 5 o 6 anni, con la testa poggiate sulle ginocchia di mia nonna che sferruzzava, assieme alle altre donne, una calza, un maglione o una sciarpa, nel sacrale silenzio di uno stanzone che fungeva da camera da letto, da soggiorno e da sala da pranzo, attorno ad un braciere di carboni ardenti e nell’effluvio intenso emanato dalla  buccia d’arancia bruciata allo scopo di neutralizzare la tossicità dell’anidride carbonica, ascoltavo, vincendo il sonno dovuto alla stanchezza che prende alla fine di una giornata passata correndo a piedi scalzi tra i campi, la voce commossa di un uomo che io vedevo come l’eroe, il cavaliere buono da imitare: mio nonno!

La sua voce era pacata, tipica di chi ha visto così tante nefandezze da non doversi più indignare per nulla!

Era calda, come sa esserlo solo la voce di chi vuole entrarti nell’animo per tramandarti l’esperienza terribile che una guerra gli ha impresso.

Era convincente e stimolante, mai noiosa, come quella di chi sta per nominarti erede universale di valori che non potrai mai rinnegare.    

Fin da quei tempi lontani, forse a seguito dei fatti narratimi da chi quella guerra l’aveva combattuta, ho sempre pensato che quella non era una guerra intesa nel senso stretto del termine, ma apparteneva ad una categoria di conflitti che, con il passare del tempo e con la frequenza della Scuola di Guerra, sono arrivato a definire  “dei paradossi”.

Nel filmato, all’inizio, tratto da internet, ne abbiamo visto dieci e, su questi non mi soffermerò. Voglio, invece, aggiungerne altri quattro essenzialmente riconducibili nei seguenti:

  • La bellezza e l’orrore;
  • La tecnologia e le barbarie;
  • La strategia antiquata e la guerra moderna;
  • Il vivere e il sopravvivere, ovvero, il valore della vita svenduto per la sopravvivenza.

In questa trattazione, cercherò di farvi vedere la guerra, sì, con gli occhi di un militare, ma, soprattutto, con quelli di un uomo che crede nel suo lavoro e nella pace tra i popoli.

La bellezza e l’orrore

Bene, tutti sappiamo che, per l’Italia, la prima Grande Guerra fu combattuta a nord della Pianura Padana, in quelle regioni che chiamiamo Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia.

Qui, come confine naturale voluto da Dio sorgono le Alpi, catene montuose che oggi separano l’Italia dalle nazioni limitrofe.

Qui, sorgono le Dolomiti! Montagne che ho amato fin dagli anni in cui con il grado di Sottotenente mi trovai a percorrerle in lungo e in largo durante le esercitazioni.

Ed allora, trasponendoci al periodo bellico, come assistendo alla proiezione di un film proviamo a guardare le immagini che scorrono davanti ai nostri occhi:

Siamo al cospetto di un panorama unico! Davanti a noi, guglie di roccia bianca, rossa, gialla e nera comunicano al cielo la loro leggerezza, come se la pietra potesse farsi slancio bizzarro e volatile fino ad imitare le nubi, il vento!

Più in basso, ai piedi delle pareti, il bosco ricopre tutto, con una distesa colore smeraldo scuro che si adagia al suolo quasi orizzontale, morbida e permeante!

Tutto nel panorama è accordo! Tutto è armonia!

Accordo, armonia e… contrasto al massimo grado della perfezione raggiungibile.

Accordo, armonia e contrasto, ovvero: bellezza!

Proviamo allora a chiudere gli occhi, lasciando che il quadro, il capolavoro, si fissi sulla nostra retina.

Ma, proviamo ad immaginare lo stesso panorama mentre… mentre il boato di uno shrapnel (proietto costituito da un involucro sferico di ghisa contenente una carica di polvere nera e numerose pallette di piombo che, per mezzo di una rudimentale spoletta a miccia, esplodeva lungo la traiettoria, lanciando le pallette all’intorno) squarcia il cielo e una pioggia di piombo travolge una massa brulicante di soldati in corsa.

Cadono a decine, mentre molti di loro stentano ad uscire dai ripari tra le rocce, terrorizzati.

Gli Ufficiali li spronano fuori dai loro anfratti. Alcuni lo fanno sparando in aria, altri, alle loro spalle, ad altezza d’uomo, mirando verso i più codardi!

Più avanti, i compagni cadono come birilli falciati dalle mitragliatrici, appena pochi metri oltre le difese.

Da lontano, l’artiglieria nemica rintocca a strage, aprendo vasti crateri sui prati fioriti d’inizio estate.

Le rispondono i cannoni ed i mortai, senza troppo preoccuparsi di colpire le proprie truppe.

Le scariche di fucileria si aggiungono alle raffiche ed ai boati.

In pochi minuti è tutto finito!

I soldati superstiti rientrano nelle trincee.

Il breve pianoro verde costellato di rocce è ora irriconoscibile, straziato com’è da voragini scure, cosparso di cadaveri tutti uguali, in divisa di un colore sbiadito.

Cala la sera!

Tutt’intorno le pale rocciose si infiammano del solito rosso sangue e sovrastano la tragedia della terra di nessuno disseminata di feriti a morte che gridano e si lamentano, chiamando la madre, la sposa, la fidanzata, il padre, un fratello, un amico in un’agonia senza speranza di salvezza.

Questa è la vita e la morte dei soldati al fronte!

Questo è quello di cui oggi dovremmo parlare!

Adesso apriamo gli occhi e torniamo all’incanto delle Dolomiti d’estate.

Pensiamo ed immaginiamo!

Pensiamo a quanto sia difficile perfino immaginare una guerra in un posto come questo!

Si dice che le Dolomiti siano le montagne più belle del mondo, ma si dice anche che i modi della Grande Guerra lì combattuta siano stati i più orribili della storia contemporanea. I più sanguinosi, i più spietati con le stragi più inutili e cruente che si possono immaginare.

Il primo grande paradosso della Grande Guerra, agli occhi di chi la esamina e, oggi ai nostri occhi, è proprio questo:

Un paradiso precipitato all’inferno! La bellezza trasformata in orrore!

Tecnologia e barbarie

La prima guerra mondiale è il primo conflitto della storia con la corrente elettrica ed il telefono, i motori a scoppio ed i compressori, le mitragliatrici ed il filo spinato, i camion, l’aerofotogrammetria, i razzi illuminanti e la moderna chirurgia da campo.

Alcuni di questi prodigi dell’ingegno scientifico novecentesco erano già apparsi in altri conflitti, ma mai, prima del 1914 si era visto un tale numero di nuovi strumenti e nuovi ordigni disimpegnati all’unisono e messi a disposizione dei contendenti.

Tutto questo portò alla nuova concezione della guerra con la conseguenza che la massiccia introduzione di nuovi e raffinati mezzi fu la ridefinizione del ruolo del soldato: il combattente, fino a quel momento soggetto delle sue armi e dei suoi mezzi, si trasformava, nell’era della tecnica, in funzionario della sua dotazione. Ben presto, i Comandanti “svegli” o di ampie vedute capirono che si trattava di una guerra di materiali in cui gli uomini erano subordinati alle loro macchine.

La disumanizzazione del soldato, trasformato in ingranaggio, la sua perdita di individualità, diventarono presto un effetto collaterale non immune da gravissime reazioni.

In termini più concreti di strategia militare, le innovazioni tecnologiche portarono, sin dall’inizio del conflitto, una sproporzione insanabile tra offesa e difesa a tutto favore di quest’ultima. Grazie alle mitragliatrici, ai reticolati ed alle artiglierie più leggere, mobili e precise, le possibilità di successo delle offensive si fecero sempre più esigue determinando quell’immobilità dei fronti che distingue da tutti gli altri questo conflitto.

Non per nulla, la prima guerra mondiale viene ricordata come la guerra di trincea dove un poderoso attacco lasciava al suolo migliaia di vittime ma non veniva guadagnato un metro di terreno.

Pertanto, se “fronte” significa, come effettivamente significa, porsi uno innanzi all’altro e stare per un certo tempo in posizione statica, non possiamo non convenire che il fronte, il vero fronte, era questo.

Il vero fronte era la contrapposizione statica di due eserciti che si guardavano, si studiavano, si scontravano.

Ed il fronte statico, il fronte della guerra di trincea tipico della prima Grande Guerra, fu determinato dall’introduzione della tecnologia.

Lo stesso motivo, la sofisticazione della tecnologia, di contro, nella seconda guerra mondiale sarà quel motivo che colmerà il divario tra offesa e difesa di cui parlavamo prima e che era stato a tutto favore della seconda. Infatti, con l’invenzione dei carri armati moderni e lo sviluppo dell’aviazione che consentì il trasporto oltre le linee nemiche grazie al paracadute, impedirà di avere dei fronti statici, come li abbiamo definiti, dove i contendenti, per la vicinanza, potevano parlarsi o, talvolta, addirittura guardarsi negli occhi.

Sul fronte italo-austroungarico, ben presto, apparve evidente che, grazie alle nuove armi forgiate dall’ingegno tecnologico-industriale, qualunque azione offensiva sarebbe stata inutile, eppure, l’Esercito Italiano, sotto il comando di un generale, Luigi Cadorna, con concezione vetusta della guerra, continuava ad andare all’attacco immolandosi in un sacrificio inutile che trovava spiegazione nell’insuperabilità del nemico, posizionato nella trincea protetta dall’uso di armi moderne e dal filo spinato. Italiani ed austriaci continuarono per quasi tre anni a massacrarsi a vicenda perdendo e riconquistando all’infinito le stesse posizioni, ben sapendo che nessuno sarebbe mai riuscito a penetrare significativamente oltre il fronte contrapposto.

Razionalità tecnico-strategica e irrazionalità belluina segnarono gli eventi allo stesso modo in cui mazze ferrate e corpo a corpo bestiali distinsero mille battaglie di trincea.

Molti hanno visto in questa caduta nella barbarie una reazione più o meno consapevole ad un nuovo genere di guerra tecnologica che privava il soldato di soggettività riducendolo a mera funzione, a congegno impersonale meno importante e più sostituibile delle macchine che governava.

Ecco, dunque, il secondo paradosso: la tecnologia pensata, voluta e sviluppata per favorire il progresso diventava barbarie favorendo eccidi di massa di uomini la cui vita valeva meno dei materiali bellici usati.

La strategia antiquata e la guerra moderna.

Il terzo paradosso della guerra di trincea fu da attribuire più all’inettitudine dei Comandanti che all’uso della tecnologia.

Se l’impiego dei carri armati, dei cannoni, delle mitragliatrici, delle mine, dei gas asfissianti continuavano a fare vittime ogni qualvolta venivano usati, anche al profano appariva evidente che bisognava trovare un rimedio, inventarsi qualcosa!

Ebbene, i Comandanti, almeno quelli italiani che poi sono quelli che maggiormente ci interessano, preferirono pensare che la soluzione stava nel chiamare al fronte più militari possibile in sostituzione di quelli che ogni giorno ci lasciavano la pelle.

Certo, si fosse stati ai tempi delle guerre puniche o ai tempi di Serse o Alessandro Magno, il numero avrebbe sicuramente fatto la differenza. Ma non si era più a quei tempi! Perfino le battaglie napoleoniche avevano dimostrato che alla fine vince l’ingegno e non la forza!

Tutto vero, tutto chiaro, tutto semplice!

Ma Cadorna, il generale Luigi Cadorna, colui al quale era stata affidata la direzione di tutte le operazioni belliche, non lo capì!

Lui aveva una concezione diversa della battaglia e dell’atto bellico!

La sua tattica e la sua strategia non prescindevano dagli inutili atti di forza, nulla contando la spesa in vite umane e, purtroppo, con il risultato scarso se non addirittura nullo.

La guerra moderna veniva considerata, valutata, accettata e combattuta da quasi tutte le nazioni partecipanti in modo nuovo, diverso, tranne dall’Italia e dal suo Generale!

Mentre al fronte venivano utilizzati i gas asfissianti ed i nostri fanti morivano, il Ministero della Guerra ed il Governo non cercarono di approvvigionare maschere ma pensarono di inviare al fronte quintali e quintali di cotone, che costava molto di meno, da distribuire ai soldati che si sarebbero protetti con un batuffolo imbevuto di acqua o, più spesso, in mancanza di acqua, con urina, premendolo sul naso e sulla bocca.

Riporto le testuali parole di chi visse quei momenti e me li raccontò:

“Quando, nel cuore della battaglia o nei rari momenti di riposo, tra le trincee maleodoranti per i bisogni corporali che lì erano fatti violando la dignità personale di ognuno o il fetore dei cadaveri in putrefazione, tra i lamenti dei feriti, tra le lacrime di chi disperava di riabbracciare i genitori, i fratelli, le sorelle, la moglie, la fidanzata, i figli, si sentiva solo un piccolo scoppio che poteva fare pensare ad un colpo d’artiglieria andato a male, il panico tra noi veterani aumentava mentre negli occhi dei neofiti si leggeva la soddisfazione per il fallimento dell’artiglieria nemica. Erano i gas! Loro non facevano rumore! Loro uccidevano in silenzio! E le vittime preferite erano proprio quei ragazzi di diciotto anni, quei ragazzi del ’99, strappati alle famiglie di ogni parte d’Italia e mandati al macello! Loro, non sapevano ancora quanto danno poteva portare quel “colpo acidulo che non era esploso”. Noi morivamo e, dalle retrovie, non si riusciva a mandarci altro che sacchi di cotone per proteggerci! Poi, per fortuna, arrivarono gli americani e, con loro, le maschere!…”

Lascio immaginare lo stato d’animo perché non saprei e non riuscirei ad esprimerlo! Eppure, tutto questo, non rappresentava elemento di seria riflessione per una diversa valutazione da parte dello Stato Maggiore dell’epoca.

Succede però un fatto. Quello che non si era previsto: i soldati, i semplici soldati si ribellano, mettono su una rivolta contro i propri superiori!

E qui, Monteleone Calabro, l’attuale Vibo Valentia, entra nella storia scrivendone le pagine più tristi e, nello stesso tempo, più gloriose!

La Brigata Brescia e la Brigata Catanzaro costituite da siciliani e calabresi, con un reggimento che in anteguerra era di stanza proprio a Vibo Valentia ed era formato da ragazzi della stessa città e dei paesi vicini, per la prima volta, si ribellano rivoltandosi contro i propri Ufficiali inetti e contro gli ordini del Comandante Supremo: il Generalissimo Luigi Cadorna.

Dovrei, a questo punto, parlarvi della Brigata Brescia e della Catanzaro. Ma ci vorrebbe troppo tempo.

Accennerò brevemente alla loro storia rinviando i più esigenti al mio libro, Sangue Italiano, o all’approfondimento presso il Centro Documentale di Catanzaro e l’Archivio Storico dell’Esercito in Roma.

La Brigata Brescia fu costituita il 1° novembre 1859 con due Reggimenti, il 19° ed il 20°, già appartenuti, durante la 1^ guerra d’indipendenza, alla Divisione Lombardia.

In particolare, il 19°, prima del 1915, stazionò per diverso tempo in deposito a Monteleone (Vibo Valentia).

Di questo glorioso Reggimento, fecero parte il Capitano Nazzareno Cremona (di cui diremo più avanti), il Cappellano Militare don Carmine Cortese, nativo di Tropea ed il grande poeta Giuseppe Ungaretti, fondatore della corrente ermetico-letteraria del primo novecento.

Allo scoppio della prima guerra mondiale, la Brigata Brescia, è schierata alle dipendenze della 22^ Divisione, come riserva, durante la prima battaglia dell’Isonzo.

Assegnata alla 21^ Divisione combatterà contro le agguerrite posizioni nemiche sulle cime del Monte San Michele.

Nel giugno del 1916 i suoi due Reggimenti, decimati nell’attacco austriaco preparato con il lancio di gas venefici, riescono, ugualmente, con un furioso ritorno offensivo, a riprendere le trincee momentaneamente perdute, facendo numerosi prigionieri.

Prendendo parte alla battaglia di Gorizia con il compito di attaccare le cime 3 e 4 del Monte S. Michele, il 6 agosto, con un sanguinoso assalto, le due cime, tanto a lungo contese, vengono alfine conquistate e mantenute contro i replicati ritorni offensivi del nemico.

Qui, proprio a riconoscenza degli atti eroici dei nostri corregionali, nasce, riferito alla Brigata Brescia, il famoso motto: fu seme il fante e la vittoria il fiore!

Obbligata a ritirarsi da alcune posizioni sotto la continua pressione dell’avversario, la Brigata si raccoglie il 19 novembre nei pressi di Padova, poi infine si ritira nella zona di Parma.

Nell’aprile del 1918 la Brescia si trasferisce in Francia, ove fa parte dell’8^ Divisione Italiana.

Combatterà con accanimento e con elevato spirito offensivo e di sacrificio in numerose battaglie.

A riconoscimento di ciò, le bandiere di guerra del 19° e del 20° Reggimento Fanteria, verranno decorate di:

– Medaglia d’Argento al valor militare;

– Medaglia dell’Ordine Militare di Savoia.

Inoltre, per le prove di valore, fermezza ed ardimento date sui campi di battaglia francesi, le bandiere dei due reggimenti vennero decorate di una seconda medaglia d’argento al valor militare.

   La Brigata Catanzaro, formata dai due reggimenti 141° e 142°, costituita per la maggior parte da militari calabresi e siciliani, impegnata in moltissime operazioni belliche pagò, come la Brescia, un caro prezzo in numero di uomini nella prima guerra mondiale.

Oltre agli atti eroici dei quali si rese protagonista, la Brigata non può non essere ricordata per la ribellione di alcuni suoi uomini nei confronti dei superiori inetti e contro le ingiustizie subite.

Per meglio comprendere gli avvenimenti, bisogna, però, ricordare alcune circolari emanate dal Generale Luigi Cadorna che considerava i suoi militari semplice mezzo per il raggiungimento dell’obiettivo e non esseri umani con una loro dignità.

Alcuni storici affermeranno: “… agiva come se fosse a capo di un esercito di soldati mercenari e non di cittadini soldati”.

   A sostegno di questo punto viene citata la circolare riservata nr. 2910 del 1° novembre 1916, nella quale Cadorna, dopo aver approvato due decimazioni, aggiungeva:

“..ricordo che non vi è altro mezzo idoneo a reprimere reato collettivo che quello della immediata fucilazione dei maggiori responsabili, allorché l’accertamento dei responsabili non è possibile, rimane il diritto e il dovere ai comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte.”

La Relazione del Generale Tommasi, in merito alle decimazioni approvate da Cadorna, così considerò i fatti:

  1. Esecuzioni sommarie che appaiono giustificate, 17 casi accertati.
  2. Esecuzioni sommarie che appaiono ingiustificate, 5 casi accertati.
  3. Esecuzioni sommarie per le quali l’azione penale è improcedibile, 3 casi accertati.
  4. Esecuzioni sommarie per le quali manca nei rapporti ogni elemento di giudizio.

La guerra mise in evidenza che l’esercito guidato da Cadorna annoverava tra le sue fila militari semplici dotati di grande coraggio e spirito di sacrificio, come quelli calabresi e siciliani che costituivano la spina dorsale di una forza guidata spesso da Ufficiali che non erano degni di comandarli.

L’impreparazione e la viltà di alcuni di questi Ufficiali, infatti, si manifestò nei momenti di maggiore criticità e, come prevedibile, venne  scaricata sui soldati. Inoltre, a commento della Prima battaglia dell’Isonzo, riferendosi allo stesso Comandante Supremo, fu scritto:

‹‹La visione inadeguata che Cadorna aveva del moderno campo di battaglia, condannò i suoi soldati ad una lotta impari contro il fuoco e l’acciaio. L’entusiasmo ed il coraggio non potevano nulla contro le mitragliatrici nelle trincee››.

Complessivamente caddero vittime della giustizia sommaria:

  • 1915: 31 soldati + 2 casi con numero imprecisato
  • 1916: 83 soldati + 2 casi con numero imprecisato
  • 1917: 155 soldati + 2 casi con numero imprecisato
  • 1918: 16 soldati.

La Brigata Catanzaro, come anticipato, con i suoi due Reggimenti, 141° e 142°, essendo stata la prima a rivoltarsi, non fu immune dalle epurazioni che avvennero per “repressione della rivolta” il 16 luglio 1917: 28 fucilazioni furono il tragico bilancio.

La rivolta, la più grave durante tutto il conflitto, avvenne a Santa Maria La Longa dove la Brigata era stata acquartierata per un periodo di riposo, reduce dagli orrori del Carso.

Quella notte alla Brigata pervenne l’ordine di tornare in prima linea.

A seguito di ciò, all’alba del 16 luglio, erano confluiti attorno al paese diversi squadroni di cavalleria ed un reparto di carabinieri, in previsione di tumulti che scoppiarono, infatti, quello stesso giorno; i facinorosi dei due reggimenti si impossessarono di fucili e mitragliatrici, aprendo poi il fuoco su Ufficiali e soldati rimasti “fedeli”.

Ci furono diversi morti.

Sedici militari presi con l’arma in pugno furono immediatamente fucilati.

Per altri 120, tutto il reparto che aveva partecipato alla sommossa, fu deciso si applicare la decimazione: furono estratti a sorte 12 militari (10%) e fucilati.

Dai fatti accertati dal Gen. Tommasi nel 1919, emerse che fu la 6^ Compagnia del II Battaglione del 142° Reggimento ad ammutinarsi alle 23 del giorno 15.

Le ricerche da me esperite nei confronti di questa Compagnia mi hanno confermato una forte presenza di militari del comprensorio vibonese che non ritengo opportuno nominare perché, nonostante tutto, il reato di insubordinazione rimase anche quando fu accertata una certa legittimità dell’azione.

Le altre Compagnie, per l’energico intervento dei loro Ufficiali non avevano partecipato, mentre alle 2 del giorno 16 gli Ufficiali della 6^ non erano ancora presenti. Ciò aveva favorito un tragico sviluppo ed i rivoltosi si erano impadroniti di 3 mitragliatrici.

Il Maggiore Betti del II Battaglione, l’unico Ufficiale accorso, era stato subito ferito.

Le fucilazioni furono eseguite tra le ore 6,30 e le 8,30 ed alle 10 la Brigata si mise in marcia per il fronte.

Secondo la relazione fatta dal Comando della 3^ Armata al Generale Cadorna, la colpa era da attribuire alla propaganda sovversiva ed alla impressione destata tra i soldati dalla rivoluzione russa di febbraio.

Nulla fu detto sul fatto che erano state sospese le licenze ai soldati siciliani, numerosi nella Catanzaro, perché secondo le statistiche elaborate dal Comando Supremo era la Sicilia ad avere il primato dei renitenti e dei disertori, né fu sottolineata la lunga permanenza della Brigata in prima linea, né che tra i soldati era diffusa l’idea che spettasse ad un’altra Brigata di andare al fronte.

Ci rimisero anche gli Ufficiali comandanti della Brigata: tutti silurati.

L’esame del caso Catanzaro si può concludere con le parole di Attilio Frescura: ‹‹i complementi della Brigata provenivano dai feriti, dai condannati e dai riformati. Essi sapevano che sul Carso e soprattutto nella Catanzaro si moriva››.

Al di là della rivolta che, comunque fu determinante per una svolta della guerra, i due Reggimenti costitutivi della Brigata Catanzaro vanno sicuramente ricordati per l’eroismo dei loro fanti.

In tre anni e mezzo di guerra i suoi Reggimenti, il 141° e 142°, collezionano quattro medaglie d’oro, tre d’argento e 244 di bronzo.

Solo nel periodo degli intensi combattimenti, tra maggio e giugno 1916, dove l’Italia sperimentò l’utilità del trasporto ruotato, per arginare la Strafexpedition austriaca sugli Altipiani, l’Unità sacrificava 32 Ufficiali e oltre 500 Fanti.

Durante la Sesta Battaglia dell’Isonzo essa si trova sul terribile San Michele, che attacca, conquista e difende anche sotto una impossibile nube di gas tossico contro il quale a nulla valgono le “maschere” in dotazione.

Di una Compagnia di 195 fanti e 5 Ufficiali sopravvivono solo 83 soldati e due Ufficiali. Fu qui che il suo 141° Reggimento guadagna una medaglia d’oro concessa motu proprio da Vittorio Emanuele III.

Come ho avuto modo di accennare, non pochi militari del comprensorio vibonese combattono strenuamente inseriti nelle file della “Veterana del Carso”. Tra essi si distinse, per gesto eroico, il Capitano Giuseppe Barone, tropeano, medaglia di bronzo al Valor Militare, Comandante di Compagnia del 142° Reggimento, nel mese di ottobre 1916.

Per questi soldati la guerra è un’ecatombe che ha rare soste, di cui lo Stato Maggiore considera solo gli aspetti tattici e già nel giugno 1916, quindi, ancora prima della grande rivolta, nelle sue file sono in molti a gridare di non voler più essere mandati al macello sicuro sulla “Quota 208” del Carso, da dove nell’autunno precedente, in due mesi di inutili assalti, non sono più tornati 65 Ufficiali e 3.060 soldati.

A seguire, nel tempo, diverse furono le trasformazioni della Brigata Catanzaro e, in modo particolare, del suo glorioso 141°.

A conclusione, quindi, del terzo paradosso, possiamo sintetizzarlo con una frase, questa:

“Mentalità antica alimentata da deleteria presunzione in un contesto moderno imprescindibile e non sottovalutabile per il raggiungimento degli obiettivi bellici prefissati”.

Il valore della vita svenduto per la sopravvivenza.

Essendomi soffermato molto sugli altri, di questo paradosso dirò solo che avendo avuto modo di leggere la lettera di un prigioniero, proprio originario delle nostre parti, ho riflettuto su quello che può valere la vita in certe circostanze.

In sintesi, la lettera, scritta da un giovane soldato italiano, prigioniero, di ventidue anni ed indirizzata ai genitori, testualmente diceva:

“ Carissimi genitori, vi mando questa mia lettera per farvi sapere della mia buona salute e così spero di voi. Cari genitori, mi dispiace che non vi posso dire come voi mi chiedete dove mi trovo perché gli austriaci non ci fanno parlare con nessuno. Carissimi genitori, sono contento di dirvi che la polmonite che avevo preso il mese scorso mi sta passando se non è che la sera ho un poco di febbre e mi fa un poco male il petto quando mi viene la tosse. Basta, adesso vi faccio gli auguri a tutti per Natale che spero l’anno prossimo di passarlo con voi…

Comunque, voi state tranquilli che io me la passo bene, pensate che qui riesco a mangiare quasi tutti i giorni…!

Ecco, riflettiamo: la condizione di prigioniero diventa condizione di grande agio perché quasi tutti i giorni si riesce a mangiare! Condizione, questa, considerata “privilegio” mentre, invece, è al limite della sopravvivenza!

Alla luce di tutto ciò non possiamo non chiederci: vale così poco la vita quando è in gioco la sopravvivenza?

E, riflettendo, non possiamo non pensare alla grande massa di soldati-contadini italiani arruolati nel Mezzogiorno d’Italia che per la prima volta videro sulle Dolomiti un paesaggio diverso da quello delle loro zone di origine. Al trauma culturale di dovere interpretare un mondo così diverso da quello conosciuto, non si aggiunse, però, la difficoltà di comprendere e di accettare le ragioni di quella guerra proprio nel senso del paesaggio, della terra da conquistare. Arrivati con le tradotte militari dopo giorni e giorni di viaggio, ammassati come bestiame nei carri ferroviari e dopo marce estenuanti, curvi sotto il peso dell’affardellamento, bassi di statura e con la pelle bruna bruciata dal sole e dalle sofferenze, per la maggior parte analfabeti, chiusi nel ricordo delle loro povere case lontane custodi di sentimenti veri e profondi, armati solo di tanto coraggio e di uno smisurato amor proprio che ebbe ben presto il sopravvento sull’ironia e sulla diffidenza dei commilitoni del nord e della gente del posto, furono gli uomini che scrissero la storia con il sangue, senza pretesa di distinzione tra quello ariano e quello che scorreva nelle loro vene di provenienza greca, araba, normanna e, forse, in parte, anche francese e spagnola.

Questi uomini non si posero domande particolari quando andarono incontro alla morte offrendo il loro giovane petto negli scontri corpo a corpo o affrontando l’artiglieria nemica, tutto era giustificato da una risposta: l’Unità della Patria! Quell’Unità che, purtroppo, per deplorevoli interessi personali e meteoritiche carriere politiche oggi, qualcuno, vuole negare pretendendo di scindere il sangue del Nord con quello del Sud e le acque dell’Adda da quelle del Ticino dopo che il Po le accolte nel proprio letto!

Sono trascorsi quasi cento anni da quella guerra! Eroi di ieri, quindi, ma eroi per sempre, perché la Patria è una ed indivisibile e, come madre, non può amare in modo diverso i propri figli!

Ora, mantenendo fede a quanto promesso accennerò al rapporto di Giuseppe Ungaretti con la città di Vibo Valentia.

Il tutto è riconducibile ad un atto bellico!

In uno scontro della Brigata Brescia, il 27 agosto 1917, perdeva la vita un giovane Capitano, Nazzareno Cremona, Aiutante Maggiore in Prima, di grande bellezza fisica tanto da essere soprannominato “il Paride della Grande Guerra”. Era nato qui, a Monteleone, a Vibo Valentia!

Un uomo lo raccolse da terra e lo strinse tra le sue braccia, chiudendogli gli occhi nell’attimo finale! Quell’uomo era il cronista dal fronte della Prima Guerra Mondiale ed il suo nome, appunto, era Giuseppe Ungaretti!

Il poeta, in onore del suo Capitano comporrà una poesia e gliela dedicherà, non prima, però, di avere scritto alla famiglia, qui, a Vibo, chiedendo l’autorizzazione alla pubblicazione.

Io amo dire che ‹‹l’Unità d’Italia nasce a Vibo Valentia e si conclude con gli atti dei figli di questa città››.

Nasce a Vibo Valentia con il sacrificio di un giovane capitano vibonese: Michele Morelli, primo martire del risorgimento italiano che immolò la sua vita nei moti napoletani del 1821-1822.

Continua con il  sacrificio di tanti vibonesi nelle guerre per l’indipendenza e quelli che seguirono Garibaldi nella sua marcia verso Teano.

Prosegue, come abbiamo visto, nella Prima Guerra Mondiale, con la rivolta dei militari della Brigata Brescia e della Brigata Catanzaro e, quindi, degli appartenenti a quel Reggimento di stanza a Monteleone, che contribuirà alla destituzione del Generale Luigi Cadorna e l’attribuzione del Comando al Generale Armando Diaz. Atto, questo, che portò le truppe alla vittoria finale con la conquista di Trento e Trieste e delle terre irredente grazie al diverso modo di concepire gli atti bellici.

Ma, un ruolo importante, la nostra città lo ricoprì anche nella Seconda Guerra Mondiale, perché pochi sanno che proprio qui, a Vibo Valentia, iniziò ad essere ricostruito l’Esercito Italiano dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.

Qui, a Vibo Valentia, c’era il C.O.V. (Centro Orientamento Volontari), ramo operativo del Distretto Militare di Catanzaro.

Ebbene, proprio dal C.O.V. di Vibo partirono i militari che per primi combatterono contro i tedeschi presso le località di Montelungo e Cassino.

Si aggiunga a tutto questo che la parola “Italia” nacque a Catanzaro, la nostra vecchia provincia, ed il territorio geografico che per primo prese il nome di “Italia” era quella striscia di terra che si allunga, tra lo Jonio ed il Tirreno, da Lamezia a Reggio Calabria.

Vedete, ogni giorno, sulla propria strada, si incontrano uomini che camminano, quindi vivi, ma… uomini morti! Perché incapaci di lasciare una traccia del loro passaggio, di lasciare idee o ideali!

Ogni giorno, sulla propria strada, si incontrano uomini già morti, ma che sono e resteranno sempre vivi, perché capaci di trasmettere idee ed ideali che non moriranno mai!

Tra i primi, tra gli uomini vivi ma morti, troviamo chi ha la pretesa di dividere ciò che il valore e la Storia ha unito!

Tra i secondi, tra gli uomini morti ma vivi, troviamo quei giovani valorosi dalla pelle scura provenienti dalle nostre terre, dai nostri paesi, dalla nostra provincia che morirono per la libertà e per l’unità della nostra Italia!

Loro, al contrario degli altri, hanno lasciato una traccia del loro passaggio!

Non dimentichiamoli!

E, questa volta davvero concludo ma non prima di rivolgere un doveroso e sentito ringraziamento a tutti gli intervenuti per avere avuto la pazienza di ascoltarmi fino in fondo.

Ringrazio le Autorità militari, civili e religiose, il dottore Misitano, direttore dell’Archivio di Stato di Vibo Valentia, che ha fortemente voluto questa giornata e tutti gli uomini di cultura e studiosi che vedo presenti in questa sala.

Saluto tutti lasciando un pensiero su cui riflettere, questo:

Vibo ha fatto nascere l’unità d’Italia facendole muovere i primi passi con le gambe di Michele Morelli, l’ha fatta crescere e maturare scrivendone la storia con il sacrificio dei suoi figli! Oggi, Vibo, proprio in virtù di questo, stretta tra le spire di un serpente (la delinquenza comune e quella organizzata come la ndrangheta) emblema di falsi idoli e della non cultura lancia un gemito che non è più di sofferenza ma di vera e propria agonia!

Vibo, la vecchia e gloriosa Monteleone sta morendo!

Ma, Vibo, città di storia patria, non può e non deve lasciarsi morire! Sta agli uomini delle Istituzioni, agli uomini di cultura ed agli uomini di buona volontà impedire questo suicidio! Loro, ma non solo loro, è il compito di impedirle di morire, volendo e partecipando a manifestazioni come questa!

Solo così, promuovendo un nuovo, grande, inarrestabile Risorgimento potremo anche noi sperare di essere associati a quelle persone che ogni giorno si incontrano per strada e che resteranno eternamente vive perché hanno costruito la storia della nostra città, della nostra nazione, del nostro pianeta!

Bibliografia: Volumi dell’archivio storico dell’Esercito; Volumi di Autori vari; Internet.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *